«Ci fu molta leggerezza, è vero. Ma non mi sento colpevole. Non potevo conoscere a memoria i numeri del registro generale di tutti i processi». Rimpallo di responsabilità in aula sulla distruzione di prove e reperti. Se con la testimonianza di Ottavio D’Agostino, l’ex gip che nel 2000 firmò l’autorizzazione per la distruzione di tutti i reperti relativi all’omicidio di Lidia Macchi, chi si aspettava di arrivare a un chiarimento sull’incredibile fatto o a individuare un responsabile ieri è rimasto deluso.
D’Agostino ha testimoniato alla Corte d’Assise presieduta da Orazio Muscato davanti alla quale siede sul banco degli imputati Stefano Binda, 50 anni di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia Macchi, la studentessa varesina di 20 anni, assassinata con 29 coltellate dopo un rapporto sessuale la notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987.
Binda fu arrestato 29 anni dopo, il 15 gennaio 2016, con l’accusa di essere l’autore dell’efferato delitto. Il nuovo impulso alle indagini dato quattro anni fa dalla procura generale ha portato a conoscenza del pubblico un fatto sconcertante: tutti i reperti relativi all’omicidio Macchi, custoditi nell’ufficio reperti del tribunale di Varese furono distrutti nel 2000. Compresi i vetrini sui quali potevano essersi conservate tracce biologiche (spermatiche) dell’omicida. La possibile prova regina è andata distrutta per sempre.
E ieri in aula c’è stato un rimpallo di responsabilità. D’Agostino ha infatti testimoniato «di aver ricevuto dall’allora funzionario responsabile dell’ufficio Antonino Ciccia un elenco di reperti destinati alla distruzione» in quanto «l’ufficio era stracolmo. Un elenco fatto di numeri. Fidandomi di Ciccia, non potendo immaginare che alcuni di quei reperti si riferissero a un caso ancora aperto, soprattutto a un omicidio che tanta attenzione suscitò come quello di Lidia Macchi, lo firmai. Ci fu leggerezza ma da parte di Ciccia».
Ciccia per contro, già ascoltato sull’argomento dalla Corte, ha detto esattamente il contrario: non fu lui a compilare quell’elenco che D’Agostino firmò. All’ex gip il pg Gemma Gualdi ha però mostrato copia di quell’elenco: accanto ai reperti relativi all’omicidio della studentessa, oltre al numero di registro, compariva a chiare lettere la scritta Lidia Macchi. Per D’Agostino qualcuno la aggiunse dopo, anche se il pg ha sollevato dei dubbi: «Sembra scritto tutto di seguito con gli spazi assolutamente in ordine».
D’Agostino ha parlato anche di un altro luogo dove erano custoditi «I reperti più importanti relativi al caso Macchi. Un armadio blindato nell’ufficio del dottor Agostino Abate, pm all’epoca titolare delle indagini – ha spiegato l’ex gip – Tra questi anche un capello biondo trovato sull’auto di Lidia Macchi. Un capello che, in più occasioni, suggerii ad Abate di utilizzare per la comparazione con il Dna di don Antonio Costabile. Non lo fece mai».
Don Costabile 30 anni fa fu sospettato di essere l’omicida di Lidia (fu poi scagionato ricevendo 28 anni dopo anche le scuse da parte della procura generale) «Ed era biondo», ha aggiunto D’Agostino. I sospetti su un religioso scatenarono un putiferio «Abate era rimasto scottato, fu indagato per sequestro di persona (l’accusa fu archiviata). Da allora vedeva il caso Macchi come fumo negli occhi. E non fece quell’analisi del Dna».
Il punto nodale della questione, però, non è affatto stato sciolto. Come è stato possibile distruggere reperti relativi a un caso di omicidio irrisolto? «Ci fu molta leggerezza». Ma da parte di chi?